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Premio Paola e Lucia Molin XVIII edizione: Tàngere

Quando chiesi alle tre giovani artiste un titolo per questa mostra riuscirono a stupirmi con una parola: Tàngere. Eravamo ai primi di febbraio e non passò molto tempo che accadde qualcosa di assolutamente inconcepibile fino a quel momento: un’intera nazione ferma e chiusa in casa a causa di un’emergenza sanitaria. Naturalmente la mostra fu annullata e rinviata a data da destinarsi. Il mantra quotidiano divenne: non toccarsi occhi, naso, bocca con le mani; lavarsi spesso le mani; evitare il contatto con le persone; applicare il distanziamento sociale. Così l’ossessiva e quasi sacrale ripetizione di quelle frasi quale monito sanitario, si trasformò in strumento del pensare, un mantra appunto. Come commentare Tàngere all’epoca del Covid19? 

È tipico degli artisti avere delle antenne che percepiscono i principali nodi problematici della società che li circonda e sono perciò capaci di inaspettate intuizioni. 

La scelta di quel titolo, riconsiderata durante il periodo di sconcertante clausura, si accendeva di inquietanti bagliori. Era un’inconscia profezia, una criptica premonizione? D’altra parte questo desueto latinismo, in un’epoca inondata di anglismi, poteva perfino essere percepito come un presagio inquietante proveniente dal passato. Questo farebbe delle nostre artiste delle profetesse, delle sibille, care ad Apollo dio di tutte le arti. Tàngere, dunque, forse nasconde un invito al genere umano: sfruttate subito e il più possibile il senso del tatto, finché potete, riflettete sulla sua importanza, perché poi vi sarà negato per chissà quanto tempo. 

Può sembrare incongruente, un ossimoro, dibattere sul verbo “toccare” dopo un periodo dominato da un contagio, peraltro non del tutto risolto; io invece credo che sia l’occasione giusta per fare alcune considerazioni da un mutato punto di vista. Forse i mesi di clausura ci hanno permesso di riflettere su quante conoscenze, esperienze, emozioni passano attraverso il tatto; esserne privati ci ha fatto vivere una sorta di diversa cecità. E chissà come possono essersi sentiti i ciechi, ulteriormente menomati, perduti e angosciati. 

 Che Clara Rosso, Elena Bovo e Silvia Patron non intendessero fermarsi al tatto e al toccare solo in senso fisico e superficiale lo si desumeva già dalla loro iniziale dichiarazione d’intenti: “Riteniamo che il tatto, nella poetica delle nostre opere, sia un elemento fondamentale che sottolinea la sensibilità che tocca, appunto, in maniera diversa chi si approccerà alle nostre opere. Toccare significa soprattutto mettersi in contatto, connettersi attraverso la sensibilità e quello che vogliamo trasmettere è un invito ad immergersi nell’opera sia fisicamente sia figurativamente. Una connessione che non vuole essere prevaricante nei confronti dell’osservatore ma che stabilisce un rapporto di interscambio arricchimento biunivoco.” 

Le affermazioni delle artiste sono chiare e condivisibili, collegabili anche al Manifesto Futurista del Tattilismo (Marinetti 1921). Il tatto è un elemento fondamentale della loro poetica, e va inteso non solo in termini fisici, perché deve trovare spazio pure la sensibilità che tocca in maniera diversa. Si punta ad una sublimazione di quel canale percettivo in quanto l’obiettivo è mettersi in contatto, ma con garbo, senza forzature, perché il rapporto di interscambio e arricchimento biunivoco che ne dovrebbe risultare tra artista e fruitore tramite l’opera, non vuole essere prevaricante nei confronti dell’osservatore. Parola chiave diventa con-tatto: così trascritta amplifica il suo significato, dichiara l’intenzione di trattare con accortezza e delicatezza, sfiorare con leggerezza, avere levità d’animo nell’affrontare argomenti, persone, situazioni: dunque Tàngere. Questo atteggiamento sottintende l’idea che dei contenuti elaborati formalmente nei linguaggi delle arti visive, dunque appartenenti alla dimensione dell’estetica, possano alla fine veicolare pure valori etici. I disegni, i dipinti, le fotografie, le tecniche miste, le installazioni di Clara, Elena e Silvia generalmente instaurano una sorta di relazione di contatto impostata su tre livelli: una relazione con loro stesse come negli autoritratti; poi c’è il rapporto con gli altri e le loro storie e infine la difficile relazione con l’ambiente circostante, sia naturale, sia sociale. 

Ma riflettiamo sull’uso abituale di tangere; per quelle rare volte che ci capita di sentirlo o usarlo è sempre anticipato da una negazione – non toccare – mentre le declinazioni come tangente o tangenziale prendono altre strade. Nella vita comune è spesso un divieto, nei negozi, nei musei, in altre situazioni è facile trovare un cartello con la scritta “si prega di non toccare”, c’è una sola eccezione, quella dei musei tattili per ciechi, (il primo in Italia è stato Il Museo Tattile Omero di Ancona aperto nel 1993) gli unici dove compare la scritta “si prega di toccare”. 

In Storia dell’arte troviamo il famoso “Noli me tangere”, ancora un divieto, ma in questo caso si tratta di un’interdizione assai più articolata e complessa che vede come coprotagonista: Maddalena. Non posso fare a meno di citare due pittrici, allora famose, tra Manierismo e Barocco che hanno interpretato questa tematica: Lavinia Fontana e Fede Galizia. L’episodio narrato è noto – tratto dal Vangelo di Giovanni 20/17 – Maddalena giunta al sepolcro di Cristo lo trova vuoto, vede un uomo nei pressi, lo scambia per un giardiniere, lui si gira, lei lo riconosce gli si fa incontro ma… “Noli me tangere”. Questa narrazione, tradotta in una iconografia essenziale piuttosto standardizzata anche se talora non priva di varianti significative, è un concentrato di allusioni e messaggi teologici. Ma cosa intendeva veramente Cristo? La consueta traduzione Non mi toccare non è più di significato univoco e vi possono essere altre sfumature come non farti venire il desiderio di toccarmi o, secondo una più recente versione non trattenermi, comunque tutte funzionali all’interpretazione del momento evangelico. L’essenza di quell’incontro dove centrale è spesso il linguaggio delle mani sta nel concetto di soglia: corpo fisico da una parte e tangibile essenza divina dall’altra. Maddalena è il personaggio forse più umano e amato dei testi sacri – e pure discusso e discutibile – una donna talmente legata a Cristo da essere considerata sua compagna in alcuni vangeli apocrifi, che diventa qui chiaramente “apostola tra gli apostoli”. Questa qualifica è fermamente sostenuta dalla teologa Adriana Valerio nel suo recente libro Maria Maddalena. Equivoci, storie, rappresentazioni (2020), scrive inoltre che l’importanza della figura di Maddalena dopo i primi secoli è stata progressivamente omessa e oscurata, con artificio scritturale è diventata la somma di più donne; di questo rimane traccia perché fin dal Medioevo la sua caratterizzazione è triplice: peccatrice, penitente e apostola. Essa è, comunque, la prima a vedere Gesù risorto e da lui incaricata di avvisare gli altri, come in una nuova annunciazione. Qui Cristo, spesso nelle vesti del giardiniere divino, del nuovo Adamo, sembra pronunciarsi in questo modo: non (puoi più) toccarmi (ora) con le mani. Il seguito, però, potrebbe intendere: ma puoi toccarmi con gli occhi con il sentimento con il cuore e lo spirito. Alla fine su quella soglia c’è un contatto, si toccano virtualmente due dimensioni del mondo e va sottolineato che a rappresentare il mondo terreno, inteso come genere umano composto di maschi e femmine, c’è una donna. 

Ma ritorniamo alle nostre tre “Maddalene”: possiamo individuare come unificanti, nella dialettica delle loro diversità, le scelte tematiche all’interno di categorie e preferenze liberamente espresse. Comunque volendo trovare un ambito che riassume le loro tematiche si può dire che il corpo è il loro campo d’azione e il suo muoversi in termini spaziali e ambientali nonché in termini psicologico-comportamentali con i generi ritratto e autoritratto. Ha scritto Concita De Gregorio nel libro catalogo Chi sono io? Autoritratti, identità, reputazione “Le donne fotografe si ritraggono sempre, quasi sempre. Gli uomini fotografi molto meno. È curioso. I fotografi non hanno bisogno di cercare la loro anima?”